Quanto dovesse essere buono il vino nel Cilento antico lo possiamo percepire da un frammento di Lucilio nel quale il poeta, diretto in Sicilia fu costretto a fermarsi a Palinuro per l’inclemenza del tempo. Il cibo, dato l’arrivo improvviso e di notte , è pessimo ed il poeta, sostenuto da un cuscino, si consola dando fondo ad un orcio di vino del posto (vertitur oenophori fundus) e, dato che è buono decide di cambiare parere (vertitur sententia nobis) e di restare a Palinuro.
Ancora, nel 1476 a Firenze in casa Salutati , in un banchetto offerto al duca di Calabria, ai cadetti del re di Napoli ed ad alcuni baroni napoletani vengono offerti, assieme ai vini più pregiati di tutta Italia anche dei vini Cilentani.
Un’altra descrizione dei vini del Cilento in particolare del vino di Centola e di Pisciotta viene fatta in una lettera/manifesto da Sante Lancerio, cantiniere del Papa Paolo III, indirizzata al cardinale Guido Ascanio Sforza, nipote del Pontefice. Nell’opera del XVI secolo si parla dei vini anzidetti, si può dire, come in un trattato di enologia e venduti a Roma nel porto Ripetta.
L’ottima qualità del nostro vino oltre che da numerosi scrittori è testimoniata dai rilevanti quantitativi trasportati, nel corso dei secoli, soprattutto a Napoli, capitale del Regno, su richiesta di nobili e cortigiani “vino, il quale per sentimento comune si sperimenta il migliore che fassi in tutta l’intiera Provincia” (Frà Corrado, 1729)
Testimonianze odierne, di Rodio e Pisciotta riferiscono della commercializzazione del vino nei primi del 900 con i mercati di Milano e addirittura con gli Stati Uniti da Centola – Palinuro.
Successivamente però, probabilmente al fine di cercare di “migliorare” la qualità della produzione vinicola locale o, forse, di emulare prodotti e modelli di altri luoghi, nel Cilento cominciò l’introduzione di Vitigni esogeni: Barbera, Malvasia, Sangiovese ecc. che hanno, negli ultimi ottanta anni affiancato vitigni ben più antichi come il Fiano (in loco denominato “S. Sofia”), il Greco, l’Aglianico introdotti nel sud dai Greci di 2700 anni fa e diffusi in tutto il versante tirrenico dell’Appennino meridionale ed hanno causato l’abbandono di colture locali che rischiano di andare perse.